Il mare negli occhi

Mourtalla e i suoi 23 anni sospesi. Tra Touba e Sassari, tra la sua famiglia e quel bimbo di nessuno

Mourtalla
ha gli occhi nel passato. È lì che vivono, è lì che i suoi pensieri abitano ed è da lì che vuole andarsene. Di nuovo andarsene. Mourtalla è un ragazzo del 2000, un ragazzo di Touba, la seconda città del Senegal. «Sono capofamiglia» è la prima cosa che racconta di sé, quasi appoggiandosi inconsapevolmente al significato del suo nome: “colui che è forte”. Ma la fatica di essere capofamiglia la raccontano proprio quegli occhi, stanchi. Stanchi come la gamba che Mourtalla sembra dover continuamente aspettare, più lenta e debole del resto del suo corpo ventenne, altro pezzo di sé che sembra costringerlo a voltarsi indietro. «Ero piccolo, avevo una malattia, mi hanno fatto una puntura per guarire ma è iniziato il male alla gamba». La polio, forse. Ma non c’è lentezza che tenga per un capofamiglia, e Mourtalla capofamiglia non lo è da ora, a 23 anni; lo era già in quel passato, a 17, quando ha deciso di partire, di lasciare la famiglia per la famiglia: un fratellino, una sorellina, una mamma malata. «Laggiù non c’è niente, le cure per la mamma costano troppo; ha sempre la febbre, ha fatto due operazioni ma non è cambiato niente». Il cancro, forse. «Ho capito che dovevo andare a cercare qualcosa, perché sì, eravamo tutti insieme, ma con niente da mangiare. Non avevo mai lasciato la mamma da sola, sono sempre stato con lei, ma dovevo partire per trovare lavoro e mandare i soldi a loro». Tra quell’imperfetto e il lavoro di oggi, in un ristorante di Sassari, c’è in mezzo qualcosa in grado di scolpire, o demolire, un’esistenza. C’è deserto, prigione, strada. Ci sono mare e morti.

«È difficile, è tanto difficile»; Mourtalla lo ripete di continuo, cercando di alleggerire quella difficoltà con un sorriso diametralmente opposto a quel che gli suggerisce il cuore: piangere. La sua storia è quella di Io capitano di Matteo Garrone, ma senza set, senza costumi, senza un back-stage in cui ripararsi, e con la vita per sceneggiatura. «Ho deciso di partire con l’amico con cui sono cresciuto, con cui ho fatto le scuole, con cui ho passato l’infanzia». Un’amicizia finita in Libia, dopo aver attraversato il Mali e il Niger in autobus e a piedi. «In Libia ci hanno messo in prigione; se non paghi ti mettono lì; tre settimane di torture, sparavano alle mani, ai piedi, alle gambe. Lui è morto. Io per fortuna parlo arabo, come le guardie. Un giorno una di loro, una buona, mi ha detto “vai, scappa, ti lascio ma non dirlo a nessuno. E corri”. E ho corso. Poi ho trovato lavoro come muratore; la sera mi coprivo con un cartone e dormivo per strada». E fin qui tutto bene. Sì: fin qui tutto bene. Poi è arrivata la barca.

«Siamo partiti dalla Libia e siamo rimasti in mare una settimana». Seduto per sette giorni tra cielo e acqua, per Mourtalla poter pensare al male alla gamba sarebbe stato un sollievo. «Sono morti in tanti». Pausa. «Ho visto tanti morti, tanti morti. È morta una ragazza di 25 anni, è morto l’amico di un mio amico. E tutti quelli che morivano li buttavano in acqua». E poi è morto lui. «Avevo un bambino sulle gambe da ore, di 4 o forse 5 anni. Mi sono addormentato, con lui lì. A un certo punto mi sono svegliato perché lo stavano prendendo. Era morto. Lo hanno preso e lo hanno buttato in mare». Un gesto di pochi secondi che dura da sette anni. Tutti e sette gli anni che quel bimbo non ha potuto vivere. «Torna di continuo. Torna la sua immagine, è sempre qui davanti alla faccia. Non posso dimenticare, non dimentico mai, è sempre nella mia testa». L’italiano di Mourtalla, altra cosa di lui che zoppica, forse vorrebbe dire “non riesco”, ma è un errore che urla tutta l’umanità che in quella barca è naufragata prima di partire: “non posso dimenticare”. Poi ancora quel mantra maledetto, che gli annoda l’anima: «è difficile, tanto difficile». È tutto nella sua testa, ammucchiato dietro a quegli occhi stanchi. «Da quattro giorni non riesco a dormire, ho sempre la testa piena di problemi, di ricordi. Sono preoccupato. Ogni tanto a forza di pensare alla mia famiglia mi dimentico di me, di mangiare bene e di bere bene. E poi c’è il bambino, che torna e lo vedo. E quando se ne va lui arriva la mia famiglia, di nuovo, laggiù. Quando sono morto cosa fanno?». L’italiano, totalmente sprovvisto di congiuntivi, lo imbroglia di nuovo. “Se morissi, cosa farebbero”. E invece no: «Quando sono morto cosa fanno?». E forse anche questa volta ha ragione l’errore, perché una parte di Mourtalla sembra non esserci più, sprofondata tra la Libia e Lampedusa, in ognuno di quei gesti atroci, svuotati di umanità e riempiti con il mare. «Ho visto tantissima morte, è un bel casino. È un bel casino, la mia testa è bloccata. A casa non voglio mai uscire dalla mia camera. A volte la testa parte e non me ne accorgo, ma non ci sono più, non sono più qui e chi è con me mi chiama “ehi Mourtalla!”. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuta, perché la mia testa è piena. Adalberto adesso trova qualcuno».

 

 

Adalberto è un educatore professionale ed è stato il tutor di Mourtalla durante l’ultimo anno del progetto Prendere il volo, della Regione Sardegna. «Quando sono arrivato in Italia ero felicissimo perché ero vivo. E perché in viaggio ero stanchissimo e non ce la facevo più. Adesso è cambiato tutto, ho un lavoro, una stanza e sono vestito bene». Adalberto è anche la persona che gli ha raccontato di Agevolando, del Care Leavers Network, dei momenti come Cagliari, come Tolè. «Agevolando è un pensiero felice, mi fa sentire meno solo; ho conosciuto tanti ragazzi bravi, come Moustafa. Moustafa è un bravo ragazzo, molto bravo. Quando sono con loro sto bene e mi dimentico di essere pensieroso». Perché Mourtalla è anche altro; in sette anni ha imparato tanto, anche se quell’italiano inceppato nel passato inganna. E quel che ha imparato lo porta con sé, nello zaino, in una cartellina ordinata: terza media, pizzaiolo, pasta fresca. Diplomi uno sull’altro, orgogliosi e meritati. Pezzi di carta schierati, come se Mourtalla – per ora – riuscisse ad essere quel qualcun’altro soltanto sulla carta. Aspettando che ne arrivi altra, di carta.

«Adalberto ha trovato un avvocato e ci sta aiutando per l’invalidità». Quella che un’incomprensibile miopia burocratica gli ha negato, nonostante in Mourtalla zoppichi tutto quanto. Quel riconoscimento, quella giustizia gli serve per poter continuare a lavorare al ristorante senza impazzire di dolore, otto ore, in piedi. Gli serve il suo contratto a tempo indeterminato per cambiare il permesso di soggiorno, da protezione speciale a lavoro. E con il permesso di soggiorno per lavoro si può andare in Senegal, sicuri poi di poter tornare indietro, dopo aver riabbracciato mamma, fratello e sorella. È quello il pensiero che riesce a vincere sugli altri, ad alzarsi tra la folla che abita la testa di Mourtalla e guardarlo negli occhi: «Ogni tanto li sento, al telefono, stanno meglio. Ma quando sono morto, come fanno loro?». Ed eccolo il mare; era tutto nei suoi occhi. Esce con un pianto pieno e dignitoso, muto e immobile. Avvicinarsi a quella sofferenza, a quel dolore intimo e profondo centinaia di metri, fino a dove il mare coincide con il buio pesto, richiede un gesto delicato, un abbraccio stretto e leggero allo stesso tempo e una domanda sussurrata: “Possiamo fare qualcosa per te?”. Della sua risposta, occhi negli occhi, bagnata e consapevole, ce ne prenderemo cura fino a quando coinciderà con un sorriso: «Sì, aiutami ad aggiustare questa testa». Perché quel mare di ricordi, quel buio pesto, sono insostenibili per chiunque. Anche per chi si chiama Mourtalla, “colui che è forte”.

Insieme a Agevolando Mourtalla ha iniziato a frequentare il Care leaver Network Sardegna, ha partecipato alla Mobilità di Cagliari per il progetto Erasmus+ KA154-YOU Youth participation activities e parteciperà a quella di Catania, il prossimo novembre. Ha conosciuto ragazzi e ragazze con cui condividere la propria storia e i propri desideri. Con lui Adalberto, Referente del CLN Sardegna, ha trovato un avvocato che lo accompagni nella pratica per il riconoscimento dell’invalidità. E in queste settimane, sempre insieme a Adalberto, ha trovato e iniziato a incontrare un professionista che lo aiuterà a smettere di vivere nel passato, a essere protagonista del presente e a sognare il suo futuro.

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