«Il miglior racconto inizia con l’ascolto»
Diletta Mauri racconta la ricerca che ha iniziato a fotografare il leaving care italiano con un metodo preciso, il “metodo Agevolando”: prima ascoltare, poi dire e fare. Non per, ma con i care leavers.
POV: essere un Care leaver. Altro che Instagram e meme virali, a ‘sto giro si fa sul serio. E il punto di vista che tanto spopola sui social network (Point Of View, per l’appunto) in un colpo solo diventa metodo e risultato. Il metodo per fare ricerca sul leaving care e il suo risultato: cosa conta davvero per un care leaver. Un punto di partenza essenziale per capire, conoscere e lavorare con loro, con i care leavers. Partendo da una semplice domanda: perché osservarli e immaginare, quando basterebbe ascoltarli? Semplificando è stata questa la scintilla della ricerca nata nel cuore di Agevolando e già protagonista della prima e della seconda Conferenza nazionale del Care Leavers Network. Voci e pensieri condivisi, analizzati e raccontati, che da anni consigliano la strada da percorrere, e che può portare, ad esempio, all’istituzione di un fondo sperimentale per care leavers nel 2017. Voci e pensieri che continuano a essere attuali e fondamentali, come ci spiega Diletta Mauri, già coordinatrice nazionale del Care Leavers Network di Agevolando e oggi assegnista all’Università di Trento. Lei, insieme a Valerio Belotti e Federico Zullo, è stata l’anima della ricerca. «Avevamo un bisogno: raccontare i care leavers capendone necessità, esigenze, difficoltà, desideri… Capire la loro condizione in un Paese – l’Italia – in cui eravamo assolutamente indietro in quanto a “dati”, e di conseguenza a consapevolezza. Raccolti i dati abbiamo potuto iniziare a presentarli a chi di dovere, abbiamo potuto presentare alla politica le basi concrete di una realtà che necessita di considerazione e di azioni. E dati e numeri sono spesso alla base delle azioni politiche».
Nel gergo tecnico si parla di advocacy, che è una delle azioni e mission di Agevolando. Ma cosa significa?
«Significa rinforzare la voce e portarla dove è bene che sia ascoltata. Soprattutto se è la voce di chi rischia di non essere sentito. Ci sono varie modalità per farlo, ad esempio quella di professionisti che riportano la voce di qualcuno; nel caso di Agevolando invece a parlare sono i protagonisti e le protagoniste stesse di quelle voci, i ragazzi e le ragazze».
E sul “metodo Agevolando” è nata la ricerca?
«La ricerca e le competenze di chi l’ha fatta sono state al servizio di quelle voci, per riuscire a farsi sentire. L’utilità, tornando all’advocacy, è doppia: da una parte portare a conoscenza, dall’altra aiutare a capire se la direzione e la strada intrapresa dalle azioni politiche siano corrette, o se sia meglio aggiustare il tiro. E chi ascoltare, per capirlo, se non i destinatari di quelle azioni?».
Quali sono le caratteristiche specifiche della vostra azione?
«Quelle metodologiche. La prima è che non è nata in accademia, ma da un’associazione che lavora attivamente con i protagonisti della ricerca stessa. La seconda aver costruito degli strumenti di ricerca che prendano in considerazione come i soggetti concettualizzano le questioni che si vogliono studiare. Questo approccio ha dei limiti, ma anche il grande valore di non basarsi sull’idea di cosa sia il benessere partendo da criteri adulti o da un’idea astratta di infanzia. Qui infatti gli strumenti di ricerca si sono adattati alle specificità e ai criteri dei ragazzi e delle ragazze».
Quali sono state le fasi?
«Capendo che c’era bisogno di conoscere, e dunque di dati, siamo partiti da una domanda: cosa ne pensano loro? Cosa ne pensano i care leavers? Siamo partiti coinvolgendo circa 100 care leavers in dei focus group e sulla base dei risultati che sono emersi Valerio Belotti, supervisore scientifico del CLN, ha strutturato il questionario. Una prima raccolta di dati è stata portata alla prima conferenza nazionale (2017), una seconda alla seconda conferenza nazionale (2020) e utilizzata anche all’interno di una ricerca e azione nel bergamasco, dal Coordinamento delle Comunità Alloggio e delle Reti familiari della provincia di Bergamo. Il tutto grazie ad Agevolando, che l’ha promossa e sostenuta, al CNCA e a SOS Villaggi dei Bambini – Italia che ci hanno aiutato a diffonderla. È anche grazie a questa ricerca che è nato il libro Care leavers – Giovani, partecipazione e autonomia nel leaving care italiano».
Entriamo ora nei numeri: quanti ragazzi e ragazze avete ascoltato?
«In tutto 454, tra i 15 e i 25 anni. Che è un buonissimo numero per il contesto italiano, anche se non è un campione rappresentativo della popolazione. Quindi se da una parte siamo finalmente riusciti ad accendere una luce sul leaving care italiano, dall’altra significa che la fotografia è parziale. E che tra i care leavers, sicuramente, siamo riusciti a raggiungere chi sta meglio; questo ora dev’essere la molla per raggiungere gli altri».
Cosa avete ascoltato da queste voci?
«Tantissimo, ma qualcosa è spiccato. Ad esempio quanto pesino le disponibilità economiche nel malessere percepito dai care leavers; quanto siano vissute come discriminanti, come gap difficile da colmare. O ancora quanto invece la casa abbia un valore molto più simbolico: lo spazio proprio, anche se magari di una stanza soltanto, porta a percepire livelli più alti di benessere. Un’altra voce importante è stata quella dei Msna (Minori stranieri non accompagnati, ndr); loro hanno riportato livelli di benessere percepito più alti. Abbiamo quindi discusso questi risultati con un gruppo di care leavers e abbiamo condiviso che una spiegazione potrebbe essere che dipenda dal punto di partenza, dalle condizioni iniziali; che partendo da una forte precarietà “basti meno” per sentirsi meglio. Dall’altra però – attenzione – che questo può diventare un problema laddove porti ad accettare condizioni comunque troppo precarie o che non tengano conto dei propri diritti, di cui spesso non si ha nemmeno coscienza».
C’è stato un dato sorprendente, o “comune”, che la ricerca ha portato a galla?
«Quello della partecipazione. Se i ragazzi e le ragazze vengono ascoltati il loro benessere percepito aumenta. I care leavers che escono da percorsi partecipativi, da esperienze di accoglienza improntate sullo stile partecipativo, in cui viene riconosciuto il loro punto di vista, hanno una percezione di benessere più alta trasversalmente agli ambiti della vita che abbiamo studiato. Questa riguarda anche il rapporto con la famiglia di origine. I ragazzi e le ragazze danno un altissimo valore alla possibilità di essere ascoltati e ai progetti o singoli professionisti che hanno a cuore il loro punto di vista e se ne prendono cura. E anche i care leavers con cui abbiamo discusso i risultati lo hanno confermato: non c’è metodo migliore di parlare dei care leavers di creare uno spazio di ascolto in cui possano essere poi loro stessi a parlare di sé, senza considerarli esclusivamente soggetti vulnerabili da proteggere».
I prossimi passi?
«Intanto siamo felicissimi che la ricerca sia uscita anche su riviste internazionali perché l’Italia è poco presente nel dibattito internazionale. E in questo senso è bello e significativo che nel 2025 saremo anche protagonisti di un capitolo di una pubblicazione promossa dall’International Research Network on Transitions to Adulthood from Care sul leaving care globale. È un modo per riuscire a raccontare i passi importanti che stiamo facendo in Italia e dialogare con altri ricercatori».
Restando in Italia invece?
«Bisogna continuare a tenere la luce accesa, altrimenti i loro bisogni rimarranno invisibili. I dati, i numeri e le voci però non devono restare nelle università, da lì devono uscire e produrre cambiamento. Ora il leaving care è entrato nell’agenda politica del nostro paese, ma io ricordo che alla prima conferenza nazionale alcuni politici che si occupavano di questi temi non sapevano chi fossero questi giovani. Parliamo inoltre di un universo in cui lo stigma è ancora forte e ha conseguenze dirette sulle persone: sia sulla società che continua ad avere timori nei loro confronti – associando ad esempio “comunità” a “tossicodipendenza” – sia sui care leavers stessi, in termini di relazioni e autostima. Su questo c’è molto da fare, e credo che il lavoro che sta facendo il Care Leavers Network sia fondamentale. Infine, soprattutto se penso all’ambito delle professioni coinvolte nel supporto ai care leavers, credo sia fondamentale che al fine di conoscersi e capirsi occorra lasciare sempre più spazio al punto di vista delle persone, anche cedendo parte del proprio potere di professionisti. Non è tempo di paternalismo, di “fare per conto loro”, ma di fare con loro, mettendo le nostre competenze al servizio delle loro voci».
Questa intervista nasce dalla pubblicazione di un articolo, questo: Care Leavers’ Perceived Well-Being: Findings From a Co-constructed Survey in Italy. A cura proprio di Diletta Mauri (Università di Trento), Mara Sanfelici (Università di Milano Bicocca) e Valerio Belotti (Università di Padova), è stato pubblicato in queste settimane su Child and Family Social Work e analizza i dati della ricerca promossa da Agevolando, approfondendo soprattutto la percezione del benessere.
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